https://www.dvm360.com/view/adopt-don-t-shop-marketing-genius-or-shaming-slogan
In questo articolo su DVM360, un magazine di informazione veterinaria rivolto al mercato americano, la Dottoressa Tannetje Crocker si scaglia contro lo slogan Adopt don’t Shop, accusandolo addirittura di essere una “genialità del marketing e/o uno slogan vergognoso (o disgraziato a seconda della migliore traduzione che gli si vuole attribuire)”. Quando si inciampa in queste faccende viene voglia di mollare tutto, di buttare nel cesso anni di ricerche, fatiche, minacce, gomme bucate e battaglie contro i mulini e vento. Oltre che un sacco di soldi impegnati senza alcun ritorno se non per amore della causa e per provare a regalare un destino migliore a centinaia di animali che altrimenti avrebbero visto la fine dei loro giorni dietro squallide gabbie. Anche i veterinari lo fanno (molto spesso) per passione. E della passione ne fanno una professione. Più che onorevole, anche perché sono senza dubbio loro l’ingranaggio più importante della catena. Invece si fa fatica a trovare qualcuno che si occupi di cani, gatti e altri pets per passione e lo fa gratis, per una missione di vita ed esclusivamente per il bene degli animali. Tra questi ci sono sicuramente i volontari delle tantissime associazioni protezioniste e animaliste presenti nelle centinaia di canili e rifugi (spesso veri e propri lager), che lottano da sempre conto tutto e tutti, che fanno spesso le veci delle istituzioni e si ritrovano pure con delle dichiarazioni fiscali da compilare a fine anno per dimostrare che spese ed entrate non producano profitti. Gente che dedica il proprio tempo a spalare le feci e donare un minimo di amore e affetto in un qualsiasi canile, per compensare le inefficienze del gestore privato di turno che invece minaccia, urla, spesso gira in Bmw (comprato con i soldi fatti sulla pelle dei cani) e quando gli gira gli mette (ai volontari) anche i bastoni fra le ruote, inventandosi scuse per non farli entrare (e per non far uscire i cani), per non parlare di cose molto peggiori. Sono questi i portatori di quel vergognoso slogan. Persone che cercano di diffondere messaggi positivi e non “strategie di marketing”. Ma il clamoroso successo della pet industry degli ultimi vent’anni ha veicolato la genesi di dinamiche ultra distorte, tra le altre cose: approfittando della diffusione del concetto di benessere animale, dell’adozione, dell’utilità del microchip e delle sterilizzazioni ha portato la massa a credere che in fondo la sensibilizzazione generale fosse cambiata (in parte vero) e che quindi “andava tutto bene” (falso). Ma i dati ufficiali delle adozioni (almeno in Italia, perché in alcuni paesi europei le cose funzionano meglio) mostrano dei cali netti delle stesse negli ultimi anni. Questo vuol dire che bene o male chi adotta sono più o meno sempre le stesse persone, che gli “ospiti” delle prigioni di stato per cani (sempre in Italia) sono sempre gli stessi (più o meno 180 mila), che i cani vaganti rinselvatichiti (i cosidetti randagi) pure, e allora come mai la popolazione canina aumenta in modo imbarazzante anno dopo anno? Oggi ci sono all’incirca 15 milioni di cani in Italia, contro i 7 di vent’anni fa. E secondo lei la colpa è nostra o di chi immette centinaia di migliaia di cuccioli sul mercato per regalare nuovi clienti alle corporations del pet food e dei servizi accessori? Ma torniamo all’articolo: “La parte più gratificante del suo lavoro è la prima visita con nuovi animali”. Sicuramente c’è del vero in queste parole intime e private, ma le prime visite con gli animali significano anche nuovi clienti, probabilmente da spennare per qualche anno, ed è ovvio che un cliente che ha speso 1200 euro (o in dollaroni) per un labrador col pedigree sarà mediamente più facilitato a spendere migliaia di euro in spese veterinarie negli anni a seguire. Ci mancherebbe che non fosse contenta. Mica sono tutti come i meccanici liguri, che ti guardano male se gli porti l’auto da riparare 🙂 . “Marketing genius”? Semmai è il contrario. Noi abbiamo fallito, se fossimo dei marketing genius non saremmo qui a scrivere questa risposta al suo delirio. Qualche misera adozione ci porta a sorridere ogni tanto ma sostanzialmente la realtà è opposta a quella che lei descrive nel suo articolo. “Sebbene la campagna di marketing sia stata molto efficace – le adozioni di animali domestici hanno continuato a crescere negli ultimi anni – ha anche provocato vergogna e giudizio da parte di coloro che scelgono di acquistare da un allevatore”. La Crocker insiste sul fatto che lo slogan sia stato vincente perché le adozioni sono aumentate (negli USA), ma hanno portato ad una sorta di diffamazione indiretta per gli allevatori. Partendo dal presupposto che non ci sarà mai un numero soddisfacente di adozioni dal momento in cui i canili sono pieni e negli USA i cani vengono soppressi per legge se non adottati entro un periodo determinato (come succede in quasi tutti paesi del mondo), a noi sembra che questa affermazione sia esclusivamente un partigiana presa di posizione a difesa degli allevatori. Ma andiamo avanti. “L’implicazione che gli unici animali domestici degni di una casa per sempre sono quelli ottenuti da un rifugio o da un salvataggio, o i randagi, è fuorviante. Presuppone due idee imprecise: (1) che tutti gli animali adottabili saranno messi a dormire a meno che voi non usciate subito a salvarne uno, e (2) che tutti gli allevatori siano cattivi e acquistando un cucciolo da loro stai sostenendo il mercato del profitto ed il traffico di cuccioli importati o clandestini che genera denaro nero.” Lo slogan Adopt Don’t Shop è ovviamente uno slogan di parte, politico se volete; ma non presuppone affatto che se voi non adottate un cane lo stesso verrà soppresso. Se però la matematica non è un’opinione, ad ogni cane non adottato seguirà un cane in più immesso sul mercato ed uno in più che resterà in gabbia, e nei paesi in cui è legale l’eutanasia, molto probabilmente dopo qualche mese succederà, se non per lui per qualcun altro. E’ altresì vero che non tutti gli allevatori sono dei miserabili aguzzini, ma schierarsi in questo modo dalla loro parte la fa assomigliare a un venditore di macchine inquinanti che trova scuse per non perdere clienti al fronte di un sempre maggior successo di quelle elettriche, cara Dottoressa Crocker. “La percezione che le persone che acquistano un cane da un allevatore siano egoiste o immorali è dannosa per tutti gli animali domestici”. Il delirio raggiunge l’orgasmo, Dottoressa Crocker. Non importa la percezione che una minima parte della comunità matura su chi acquista un cane da un allevamento, perché non ci sembra ci siano state delle manifestazioni aggressive in tal senso da parte di presunti adottanti nei confronti degli acquirenti. Gli allevatori e i loro clienti sono tra le categorie più salvaguardate dal sistema, perché producono profitti e reddito, a loro volta, a tutta una serie di realtà imprenditoriali. E dato che a nessuno importa il problema dell’overpopulation canina, che è l’unico serio problema esistente ancora più dei cani vaganti, sarà quindi del tutto irrilevante soffermarsi sul giudizio che una minima parte degli operatori del settore, attivisti o semplici adottanti hanno di coloro che acquistano. E comunque sì, Dottoressa Crocker. Comprare un cane è uno dei gesti più individualisti che ci sia. Quindi è corretto parlare di egoismo (e ci spiace che lei ragioni in questo modo, visto che ha anche l’adesivo “I spay” sul suo notebook..). La questione della scelta del cane “giusto per ogni famiglia” è invece il vero “shaming slogan” perché va di pari passo con la mercificazione degli stessi e con la maschera della “scelta del giusto cane” che va tanto di moda al giorno d’oggi. Si è proiettato il rapporto con il cane come esclusivo, con la “scusa” del maggior benessere etologico, rafforzando l’idea che l’unica cosa che contava era il rapporto con il proprio singolo cane. Degli altri non fregava più nulla a nessuno. Quindi, cara Dottoressa Crocker, lei sbaglia: gli allevatori ci sono sempre stati e ci saranno sempre, purtroppo. E la proporzione dei soggetti immessi (considerando gli abusivi e gli amatoriali a scopo di lucro) è dell’ordine dell’80% sul totale. Quindi la sua è solo bassa speculazione, perché lo slogan Adopt don’t Shop non fa male a nessuno, se non alle tasche di qualche squallido trafficante di bassa lega. Che sulla scia del trend dominante, imposto strategicamente (questo sì) dalla pet industry, riesce ad insinuarsi nelle dinamiche psicologiche che tramite i social network e le pubblicità televisive si diffondono e rafforzano le razze di moda nelle famiglie. Questa è la realtà attuale in cui sono invischiati i cani. Un po’ più fortunati sono i gatti, che almeno non sono oggetto di queste attenzioni viscerali e vivono come sempre, bene o male, nella loro sublime dignità tra i rifiuti dell’uomo, osservandolo, con uno sguardo di profonda commiserazione e tristezza, perché è quello che in fondo merita.