Accecati dal mostro tentacolare rappresentato dai volontari (dei canili e delle associazioni animaliste), precedentemente identificati come nemici da combattere in quanto figure – secondo loro – non idonee alla gestione dei cani in difficoltà, nei canili e per la strada, giornalisti e presunti esperti si avvicendano sui social all’inseguimento di scoop sensazionalistici, missioni mirabolanti e accuse di vario genere. E’ il recentissimo caso dell’inchiesta “Staffette: dall’amore al business delle adozioni” realizzato da Kodami in collaborazione con Stray Dogs International. Lo stile è quello da real tv: scimmiottando “Le Iene”, proponendo solo gli elementi audiovisivi necessari a sostenere la propria tesi, senza contraddittorio e supportando le deboli argomentazioni con riprese al fulmicotone che catturano facilmente lo spettatore affamato da dinamiche scandalistiche. L’oggetto di cotanta repulsione è il presunto business che si celerebbe dietro i trasporti di cani e gatti da Sud a Nord. Cani e gatti diretti verso le famiglie adottive che tramite il tam tam di appelli e condivisioni su internet, superando controlli pre affido, compilando appositi questionari e trafile burocratiche (a norma di legge) si mettono in contatto con singoli volontari o associazioni sul territorio che lavorano (gratis) per dare una speranza a chi una speranza non ce l’ha. Secondo “l’accusa”, la pietra dello scandalo è rappresentata dal seguente schema: la movimentazione riguarda circa cinquantamila cani (e gatti) l’anno, viene fatta attraverso viaggi troppo lunghi e in condizioni spesso contrarie al benessere etologico degli stessi, i cani vengono spostati, caricati, scaricati e gestiti come se fossero merci e spesso e volentieri finiscono in rifugi e canili del nord. Per dimostrare questa tesi vengono quindi intervistati vari esponenti del mondo cinofilo (che c’azzeccano?), veterinari, Carla Rocchi (Presidente Enpa, ex parlamentare dei Verdi a cui dobbiamo la trentennale legge 281 – rivoluzionaria sul no kill ma ormai obsoleta – e che ha regalato alle zoomafie il destino dei cani accalappiati) e altre figure utili a sostenerla, tra cui un trasportatore “etico”. Il tutto estrapolandone gli estratti critici, probabilmente a loro insaputa. Però non basta la tecnica giornalistica accattivante quando i contenuti sono un buco nell’acqua. Tra tutte le inchieste possibili che si sarebbero potute fare in merito ai problemi che affliggono i cani e i gatti vittime della trascuratezza umana si sceglie la più facile, la più comoda e la più stupida di tutte. E da una prima occhiata sui social sembra che la stragrande maggioranza degli “spettatori” se ne sia accorta (fortunatamente). Attaccare l’unica parte sana di tutta la carovana, i volontari di strada e dei canili e delle associazioni, non solo è da vigliacchi ma anche da incompetenti. L’impressione immediata è che ci sia un comun denominatore classista, da nordisti saccenti e ultra’ borghesi. Come se un leghista trapiantato in Svizzera si arrogasse il diritto di giudicare i volontari delle ONG che salvano i migranti dai gommoni in mezzo al mare dal molo di un porto libico sorseggiando un mojito. Perché sì, questi signori, assieme agli espertoni di randagismo da salotto di Stray Dog, propagatori del nulla cosmico, si divertono a immortalare con foto e video reportage i cani randagi sulle spiagge, in Sicilia o in Nord Africa, facendo seguire malsane idee come l’app di tracciamento degli stessi (così gli aguzzini dei canili del sud li possono andare a prendere, o i pazzoidi criminali che li odiano, avvelenarli). Una marea di stronzate inutili. E se vuoi partecipare devi prima aver fatto quattro o cinque scuole diverse (che loro chiamano professionali ma se le sono inventate), perché se no vali un cazzo e ti guardano dall’alto. Perché loro conoscono i cani, tu sei un plebeo sfigato che passi il tuo tempo a fargli foto e video (per cercargli casa), lo porti a passeggio per regalargli quell’attimo settimanale di dignità e ogni tanto lo accarezzi. Tutta gente che dopo qualche anno (mese?) di volontariato in canile si è stufata di spalare merda e dedicare il loro prezioso tempo ai reclusi, e ha intuito come poteva essere molto meglio parlarne da dietro la tastiera, organizzando seminari per addetti ai lavori (cioè loro stessi e i loro amici educatori), e tutta una serie di iniziative fallimentari che tutto sono tranne concreti aiuti per i cani. Ma che purtroppo hanno avuto seguito, perché l’ideologia del cane da lavoro da antropizzare a tutti i costi era in forte espansione e la gente come loro (cioè quelli che non hanno voglia di aiutare gratis) veniva facilmente catechizzata dal fanatismo crescente attorno alla “faccenda cane”. Tornando alle staffette (parola che non ci piace, perché demonizza un concetto, proprio come randagismo, immigrazione e tante altre, preferiamo “trasporti”), non si vuole certo negare che la suddetta movimentazione nasconda delle problematiche, ma a monte si sarebbe dovuto affrontare il problema diversamente: per esempio spiegando che è il meccanismo della domanda e dell’offerta (che affligge la popolazione canina e felina in verticale aumento, generato dalla sempre più malsana catena produttiva che l’industria del pet ha messo in campo negli ultimi decenni, favorita dalla sempre più delirante e ossessiva presenza degli animali da compagnia sui media e nelle pubblicità) ad innescare il motore che lo alimenta. Invece si stigmatizza esclusivamente una delle sua tante conseguenze. Perché non parlare della movimentazione di un altrettanto – se non maggiore – massivo numero di cani e gatti importati da ogni parte del mondo verso l’Italia per soddisfare le manie compulsive di chi compra la presunta razza, per squallidi fini di possesso, del mondo venatorio o per l’aberrante realtà delle esposizioni fieristiche e delle cucciolate amatoriali e clandestine a scopo di lucro? Perché non parlare dell’enorme numero di cani e gatti commerciati, venduti e rivenduti, ceduti e soppressi, sempre e solo per meri fini lucrativi? La stragrande maggioranza dei quali, peraltro, finiscono sempre nelle mani dei famigerati volontari delle associazioni, che, sempre gratuitamente, se ne occupano e cercano di riaffidarli per non farli finire in canile o sottoterra. E certo, provate a comporre il numero di un presunto professionista cinofilo se avete un problema con un cane, vi dirotterà immediatamente da un volontario, loro mica hanno tempo né voglia, staranno organizzando la nuova inchiesta sui randagi a Lampedusa!! E se è pur vero che una minima parte dei cani movimentati finiscono purtroppo in qualche rifugio o canile del nord, non basta per macchiarne la stragrande maggioranza che invece finiscono nelle case delle famiglie che li hanno adottati. Non comprati. Adottati. Salvati dalla strada (quella strada non compatibile con le sterilizzazioni di massa e le re-immissioni sul territorio) o dai canili del sud. E se è pur vero che la stragrande maggioranza di questi cani sono cuccioli di certo la responsabilità non è dei volontari ma di chi quei cuccioli ha fatto nascere (perché la responsabilità è sempre dell’uomo). E non si può ipotizzare un business milionario, ma semplicemente la furbizia commerciale di “micro imprenditori” che hanno annusato la possibilità di investire qualche migliaia di euro nell’allestimento di un furgone abilitato al trasporto legale di animali da compagnia. E chi sono, nella maggioranza dei casi, questi furbissimi figuri che speculano sulla pelle dei cani? Sono semplicemente i taxi dog 2.0 che si sono allargati. Gente che fornisce servizi, come tante altre figure più o meno professionali che hanno infestato il mondo degli animali e che dagli stessi cinofili & friends vengono incensati, così come dai media e dagli stessi addetti del settore, in quanto figure di interesse imprenditoriale. Basti pensare all’allevatore di maremmani “che dispone di 40 (!!) fattrici” Dario Capogrosso. Un mito per i cinofili!! E via torna la moda per il maremmano, come se non ce ne fossero già migliaia che muoiono nelle campagne di mezza Italia, e grazie a gente così se ne immettono altre centinaia https://terraevita.edagricole.it/agricoltura-giovane/un-allevamento-cani-guarda-ai-mercati-esteri/ Si intervista la Presidente di Enpa: a garanzia di cosa? Forse non sapendo nemmeno che la stessa Enpa, tramite le sue numerose sezioni provinciali e locali del sud, usa le stesse “staffette” per trasportare i cani dei loro territori di competenza al nord nello stesso identico modo. E come se non bastasse tutto questo, c’è il funesto colpo di scena. Viene citato, quasi sotto forma di presagio o macumba, il terribile incidente in cui ha perso la vita la volontaria Elisabetta Barbieri qualche mese fa, assieme a dei collaboratori (rip), volontari Enpa (!!), come una sorta di assurdo monito. Come se l’incidente stradale fosse in qualche modo collegato alla bontà della critica che l’inchiesta ha mosso. Siamo senza parole. Vi dovreste lavare la bocca prima di nominare certe persone.
Ma l’inchiesta deve mantenere la barra dritta e affossare i volontari, quindi non si permette certo di andare a fondo e indagare il retrobottega di questi personaggi. Si sarebbero scoperti dei piccoli vasi di pandora. Che si sono riprodotti come cavallette durante il lockdown, approfittando dell’altissima domanda e dell’impossibilità di volontari e associazioni di muoversi tra regioni. Molti sono infatti semplici faccendieri che nulla hanno a che vedere con il mondo delle adozioni ma si sono semplicemente improvvisati trasportatori; altri ancora invece sono legati ai gestori dei canili, quelli che hanno allargato i loro affari per lucrare sulla pelle dei cani anche dopo l’adozione. E’ uno dei tanti paradossi che si portano dietro queste categorie pseudo professionali che si arrogano il diritto di chiamarsi cinofili, ma che in realtà sono solo cino-fissati e cino-fatturati. Etimologicamente parlando, anche se il termine in sé non ci appartiene e ci piace poco, i veri cinofili sono gli stessi volontari. Basterebbe chiedere alle presunte vittime di questi loschi traffici, la risposta ve la daranno loro.